SIMONE MARTINETTO

IL LAVORO QUOTIDIANO

Maurizio ascolta i malanni delle gente e cerca di farli passare o almeno di alleviare la sofferenza. Mauro taglia e lavora il legno e lo trasforma in mobili e cornici su misura. Silvia insegna ad insegnare. Don Paolo fa un lavoro davvero particolare, il prete, un lavoro che coinvolge tutta la sua vita, sette giorni su sette. Mentre Gianni, Giuseppe, Daniel, Molly e gli altri hanno ereditato il mestiere di famiglia e, fin da quando erano bambini, girano con le loro giostre di fiera in fiera, di paese in paese. Poi c’è Gianni, che se vi dico il cognome, Morandi, sapete tutti il mestiere che fa fin da quando aveva tredici anni e ha girato qui e là mezzo mondo, vive ancora con la valigia sempre pronta. E infine c’è Monia, che guida adulti e bambini alla scoperta della natura e li accompagna nel cuore della terra, nel mistero intimo delle grotte.

Tutte queste persone hanno in comune il fatto di vivere nel territorio del Comune di San Lazzaro di Savena, in provincia di Bologna. Ma io credo che tra di loro ci siano connessioni molto più profonde, sottili e invisibili. Come quelle che tengono insieme il lavoro di tutti, secondo il principio dell’interdipendenza. Quando bevo il the la mattina ogni tanto penso a quante persone hanno lavorato perché quella piccola bustina di the finisse nella mia tazza: dalla cassiera del supermercato, ai camionisti e ai marinai della nave porta-container che l’hanno portato oltre l’oceano, a quelli che l’hanno confezionato e a tutti quelli che l’hanno raccolto e coltivato. Se non escludo nessuno, compresi quelli che hanno lavorato negli uffici di alcune ditte, in tutto ci saranno volute almeno un centinaio di persone per poter bere la mia tazza di the ogni mattina.

Per questo progetto ho seguito da vicino un piccolo tratteggio della vita e del mestiere di sette persone che abitano poco lontano da casa mia. Spesso incontrandoli molte volte, cercando di capire meglio io stesso il senso autentico e intimo di quello che fanno. Di come il tempo quotidiano scorra attraverso la loro attività. Nel suono ritmico delle giornate. Nell’alternarsi del giorno e della notte.

UN PRETE

Essere prete è un lavoro? In un certo senso sì, perché io ho un’alta considerazione di che cos’è il lavoro: cercare di migliorare questo mondo e quindi effetivamente questo è un lavoro. Io sono prete da 14 anni, son diventato prete nel 2002, quindi a settembre faccio 14 anni.

Sono arrivato a questa scelta pian pianino. Fin da quando ero piccolo frequentavo la Chiesa e come tanti altri ho fatto il catechismo, vengo da una famiglia di credenti non bigotti e questo è stato un bel vantaggio… che non fossero bigotti ma credenti… e pian pianino è maturata quest’idea fondamentalmente perché volevo aiutare gli altri e mi sembrava che questo lavoro o missione che dir si voglia, fosse un modo concreto per farlo. Man mano che sono cresciuto l’idea è maturata e dopo vari anni di seminario qui a Bologna, nel 2002 sono diventato prete. Sono stato per quattro anni a Castenaso come aiuto parroco e poi da dieci sono qua al Farneto, in questa bella terra e insieme al Farneto anche a Botteghino come parrocchia. E quindi ciò che mi ha guidato in questi anni attraverso la crescita che ciascuno di noi ha, è sempre stato questo: provare a fare del mio lavoro la possibilità di aiutare gli altri. Ci riesco? Boh?! A volte penso di sì e a volte no, ma questa è la vita di ciascuno di noi.

Il mio lavoro è fondamentalmente relazione, di conseguenza gli aspetti belli e gli aspetti difficili sono la relazione. La relazione come per chi vive in famiglia, per chi fa qualsiasi tipo di attività nella vita… la relazione è bella e faticosa al tempo stesso. Bella perché nella relazione noi scopriamo gli altri, scopriamo il mondo, riuscendo a migliorare quel mondo che ci è stato affidato e che in qualche modo abbiamo il dovere di rendere migliore. Difficile perché le relazioni sono complicate, perché siamo diversi, perché siamo mondi differenti e quindi è sempre difficile riuscire a mettersi in relazione; ma la grande fatica che penso il Signore ci abbia affidato è che siamo su questa terra per creare comunione, ricordandoci che abbiamo un papà in cielo e quindi siamo fratelli.

Il prete cerca di fare questo. Di viverlo prima di tutto lui se ci riesce, quando ci riesce e poi di farlo vivere agli altri, di ricordare agli altri che al di là di tutte le cose che noi possiamo cercare di fare in questa vita, ciò che davvero importa è se siamo riusciti a voler un po’ bene agli altri.

Questo è ciò che rende bello e difficile il ministero con tutto ciò che va di conseguenza, come il fatto che siamo un po’ degli zingari, nel senso che siamo in un periodo in un posto e poi dopo veniamo spostati. Si creano tante relazioni belle, si vede tanta gente nascere, i battesimi, i matrimoni, si vede anche tanta gente lasciare questa terra, si vedono tanti funerali. Si vede la gente crescere, fare esperienze belle e più difficili e poi a un certo punto magari il vescovo ti chiede di andare da un’altra parte e si parte. Questo è al tempo stesso difficile ma affascinante. Provare a essere un po’ di tutti col rischio a volte di non essere di nessuno.

La terra in cui siamo, questa valle di Zena, dove io abito, è una terra bella, una terra al tempo stesso vicino alla città, con tante opportunità, ma anche immersa nella natura e penso che la bellezza della terra poi si trasmetta anche alla gente. E questa cosa si respira. Le due comunità di Botteghino e di Farneto sono due comunità belle dove c’è tanto da fare e ogni tanto ci si scontra ma poi dopo si cerca di camminare insieme.

don Paolo Dall’Olio

UN CANTANTE

Ho cominciato a fare questo mestiere all’età di 13 anni. Prima di quell’età aiutavo mio padre, che faceva il ciabattino a Monghidoro e un paio di giorni a settimana vendevo bruscolini e caramelle nell’unico cinema del paese.

Per l’inizio della mia carriera devo molto alla maestra Alda Scaglioni di Bologna, che mi ha aiutato a intraprendere davvero questa strada. Il mio debutto con l’orchestra Scaglioni è stato alla casa del popolo di Alfonsine, vicino a Ravenna. Poi sono seguiti tre anni di spettacoli e concerti soprattutto estivi a Riccione, al Caffè Turismo. Il compenso era di mille lire. Per fortuna ho avuto molti grandi maestri e autori che mi hanno seguito e insegnato molto. Tra i tanti che sono stati importantissimi per me, ci sono Morricone, Bacalov e Migliacci.

Questo è un lavoro che si impara facendolo. Dietro le quinte c’è un grande lavoro di ricerca, di studio, di esplorazione creativa. Poi ci sono state tante fatiche e tante ore di impegno per riuscire a farsi apprezzare. Io, che ho cominciato da ragazzino, all’inizio lo prendevo come un gioco. Poi ho scoperto che questa è una professione seria e se la si affronta solo come un gioco, prima o poi si inciampa e il meccanismo si inceppa.

Ho attraversato alcuni momenti difficili e ho dovuto rimettermi in gioco molte volte. La crisi più grande è arrivata negli anni Settanta, e ho deciso di iscrivermi al conservatorio di Santa Cecilia di Roma, scegliendo come strumento il contrabbasso, perché avevo già 32 anni ed era l’unico posto rimasto disponibile. Molti dei miei compagni di Conservatorio avevano 15 anni e per loro il contrabbasso era uno strumento di dimensioni troppo grandi. Io pensavo di poter diventare direttore d’orchestra o almeno strumentista e guadagnarmi da vivere così, dato che la popolarità mi aveva abbandonato. Così quando mi sono riaffacciato sul palcoscenico della musica leggera, negli anni Ottanta, era difficile ritrovare il pubblico che avevo lasciato. Per fortuna incontrai Mogol, che mi aveva chiamato per il progetto della Nazionale Italiana Cantanti, perché sapeva che ero bravo a giocare a calcio. Per alcuni mesi con Mogol parlavamo solo di calcio, poi un giorno mi ha chiamato alle sei e mezza di mattina, dicendomi che aveva scritto una canzone per me. Grazie a Mogol e ad alcuni progetti come attore, ho potuto ricominciare e ritrovare davvero questo mestiere. Poi è arrivata la canzone “Uno su mille ce la fa”, che rispecchiava davvero la crisi che avevo vissuto e la mia volontà di superarla. Da lì tutto è davvero ricominciato.

Questo lavoro lo si può fare solo con la fatica, l’impegno e il sacrificio. A me piace sempre tentare strade nuove e ogni volta che incominci un nuovo progetto è sempre come ricominciare tutto dall’inizio. Nella mia carriera mi sono esibito in più di 3500 concerti ed è importante trovare sempre nuove risorse per evitare di annoiarsi, specialmente quando si cantano per lunghi periodi le stesse canzoni. Il pubblico si accorge se ti annoi, il pubblico crede esattamente a quello in cui credi tu, partecipa alle tue stesse emozioni. Non devi mai dare l’impressione di fare ciò che fai per mestiere. La percezione del pubblico è che cantare sia un privilegio e non è pensabile che per un cantante farlo possa essere monotono. Ogni esibizione deve sembrare unica, deve essere la migliore.

Gianni Morandi

UN’EDUCATRICE AMBIENTALE

Ho iniziato a lavorare al Parco dei Gessi circa 16 anni fa, appena uscita dall’Università. Ho studiato Scienze Naturali perché mi piacevano gli animali, le piante e le rocce. Ho cominciato questo lavoro un po’ per gioco, perché non sapevo esattamente cosa fare nella vita. Ho cominciato questo lavoro un po’ per gioco, perché non sapevo esattamente cosa fare nella vita. Il rapporto con gli animali e con gli ambienti naturali è molto più semplice di quello con le persone e mi aiuta a vincere la timidezza che a volte ho nei rapporti personali. Poi ho iniziato a lavorare con i bambini, a lavorare in classe conducendo laboratori di scoperta del mondo naturale e a fare con loro le visite guidate in esterno, portando i bambini anche dentro le grotte. Faccio conoscere l’aspetto naturalistico del Parco Naturale. Attraverso l’entusiasmo dei bambini, vedendolo in loro durante le uscite, ho cominciato ad entusiasmarmi anche io in quello che facevo.

Spero di trasmettere l’amore per questo territorio e la mia passione per gli animali e le piante, almeno in minima parte. Spero che i bambini, crescendo, continuino a mantenere il rispetto per la natura e che lo trasmettano un po’ anche ai loro genitori. E’ bello far conoscere loro anche le singole piante o insetti, che non bisogna considerare a sé stanti, perché sono tutti legati gli uni agli altri. Perché un certo tipo di piante e animali messi insieme formano un ecosistema. Conoscere queste connessioni è molto educativo e importante. Insieme scopriamo che dentro una goccia d’acqua c’è un mondo e, da questa scoperta, i bambini imparano a rispettare anche le cose più piccole e addirittura quelle invisibili a occhio nudo.

Entrare nelle grotte in gesso, con i caschetti e con le luci, senza che ci siano passerelle, immersi dentro la pancia della terra con l’argilla sotto i piedi e il suono dell’acqua che gocciola dall’alto, ci fa entrare in un ambiente che non conosciamo e si inizia a mettersi in relazione con la propria parte interiore. Quando facciamo la prova del buio, spegnendo tutte le luci e restando in silenzio, i bambini e gli adulti si confrontano con le proprie paure. Il buio ti costringe ad ascoltare te stesso. Ad ascoltare il proprio respiro e il proprio battito del cuore. Sicuramente è stupendo scoprire il fascino dell’ecosistema grotta e degli animali che vi abitano, come i pipistrelli. Rimane però altrettanto importante il fatto che, affrontando la grotta e alcuni suoi passaggi impegnativi, le persone riescono a superare i propri limiti e le proprie paure e il superarli regala una grande gioia e serenità. Per me è bello poterli accompagnare in questo piccolo viaggio che è un viaggio naturalistico e allo stesso tempo un piccolo viaggio alla scoperta di se stessi. 

Questo è un lavoro in cui ci devi mettere tutto te stesso. La cosa difficile di questo mestiere è il fatto che non si devono soltanto trasmettere delle informazioni, ma lasciare nelle persone qualcosa di profondo. Un profondo senso di rispetto.

Monia Cesari

UN MEDICO

Mi sono laureato nel 1979 e ho cominciato a fare il medico in Alto Adige il 13 dicembre del 1980, il giorno di Santa Lucia, e ho cominciato con delle sostituzioni. E’ stato molto bello, lì c’era una realtà molto diversa da quella bolognese, era una realtà di paese dove c’era una forte coesione, un vero spirito di comunità, che poi ho ritrovato parzialmente anche a San Lazzaro, dove mi sono trasferito nel 1982. Da allora sono sempre rimasto qui.

La scelta di fare il medico di famiglia credo abbia tante motivazioni. Ma quella che più emerge nella mia memoria è la figura del mio vecchio medico di famiglia, il dottor Mestiz, un medico per me stupendo, una figura quasi genitoriale. Mi ricordo l’attesa della visita domiciliare: faceva fare la doccia e il bagno a tutta la famiglia. Era come se arrivasse il re in casa. Entrava con il suo fare molto signorile, poggiava il cappello, salutava tutti, parlava come una figura amicale. Io come bambino (tenete conto che è stato prima dei sette anni e mezzo e quindi una cosa molto in germoglio) l’ho adorato e inconsciamente ho cominciato a pensare a questo ruolo importante.

Effettivamente poi svolgendo questo lavoro mi accorgo che è un ruolo molto importante. Importante dal punto di vista umano. C’è uno scambio enorme. C’è una tecnica, c’è una scienza. Ma fondamentalemente quello che porta avanti il mestiere del medico di famiglia è il rapporto umano. Il rapporto con una persona e non con una malattia. Il rapporto che noi abbiamo con la malattia è di risistemazione di diversi pareri, di diversi esami, ricollocandoli all’interno di una persona, portando avanti la qualità di vita della persona. Noi non ci accaniamo contro una malattia, noi ci accaniamo contro una cattiva qualità di vita. Questo è il nucleo del lavoro del medico di famiglia.

Direi che il mio lavoro è parecchio impegnativo e molto responsabilizzante. Però a consuntivo è una grande soddisfazione. Abbiamo dei riconoscimenti bellissimi da parte della popolazione, perché il più delle volte si creano amicizie e non solo dipendenze di lavoro. Per cui partecipiamo a battesimi, condividiamo matrimoni e condividiamo i lutti. Condividiamo le gioie e i dolori di queste famiglie. Perché rimaniamo sempre dei punti di riferimento.

Che rapporto ho con la morte? La morte io la paragono in senso opposto alla nascita. E’ un qualcosa di naturale. Io non vedo niente di innaturale in una foglia che cade, un animale che muore, un uomo che nasce, un uomo che muore. E’ tutto naturale. E’ un disegno. Quello che c’è dopo non lo so, se ci sarà un dopo o meno. Io so solo che quando un uomo muore, ciò che rimane, rimane nella testa di chi l’ha conosciuto. Rimane nella testa dei parenti e rimane anche nella testa dei medici. Io personalmente quando accompagno un mio paziente, diciamo verso il suo destino, e magari lo accompagno anche nell’ultima andata, assisto al funerale, mi danno la fotografia… non riesco a buttarla via la fotografia. Le accumulo. Io ho un cassetto con tutte le foto dei miei pazienti che sono deceduti. E sono sicuro che questi mi accompagneranno tutta la vita, poi ci penserà un mio erede a buttarle via perché per lui non saranno niente, ma per me sono importanti. Sono pezzi della mia vita professionale, pezzi della mia vita in genere. Tasselli della mia vita.

Maurizio Camanzi

GIOSTRAI

Questo lavoro qua, ci sono nato dentro. Ci sono nato e continuo a farlo. Prima giravo con mio nonno e davamo una mano a mio nonno. A un anno ho imparato a camminare in mezzo alle giostre, poi più crescevo, più davo una mano. All’inizio portavo i tappi per le misure dell’altezza, poi il cacciavite, poi piano piano ho iniziato a dare una mano a montare la giostra e adesso la monto io. Mio figlio è nato con questo lavoro e può darsi che continua oppure no.

Quando si è giovani e non si ha famiglia si aiuta papà. Stai lì sotto la giostra e ti prendi quei 10 €, quei 20 €. Poi piano piano i miei fratelli son cresciuti, come me, e si fa famiglia, e non si può stare su una giostra sola in due famiglie, non si riesce a mangiare. Perciò sei costretto a prenderti una giostra per conto tuo, così l’incasso è per la tua famiglia. Mio padre per esempio ha il mini-avio, con la rotondina e il spunginball. Poi si è sposata subito mia sorella, con un giostraio di Ravenna e c’ha un calcinculo grande, un calcinculo piccolo e lo zucchero filato. Poi dopo si è sposato anche mio fratello e lui c’ha il jumpin’ quello che si salta con le reti, poi c’ha una giostrina, c’ha un gonfiabile. Poi mi sono sposato anch’io e mi sono preso un gonfiabile, un tiroasegno, quello che si spara ai barattoli e si vince il premio, lo zucchero filato e le crepes. Poi mia nipote che con mio genero hanno una rotondina e il padre ha la ballerina, quella giostra grande. Mia cognata sta alla giostra dei cigni, che è di mio papà che dà loro una mano perché si sono appena sposati e finché non si comprano una giostra loro, gliela lascia. Invece c’è mio fratello Fabio, che lui la giostra non gli piace, e fa il cameriere in un ristorante.

Noi prima, ai tempi di mio nonno e di mio padre, giravamo con le roulotte, paese per paese. Mi piaceva girare perché si incontrava sempre gente nuova, si facevano amicizie nuove. Quando sei fermo in un posto conosci la gente del posto, ad esempio se sei a San Lazzaro conosci la gente del posto, vai alla Conad, vai alla Festa dell’Unità e così via. Poi prendi e vai a Bagnacavallo e lì cambia tutto, il Comune è diverso, la gente è diversa, si mangia diversamente e fai tutte cose diverse. E’ bello vedere sempre posti nuovi. Solo che ultimamente i Comuni, con le roulotte, fanno molte storie e poi la spesa di pagare un doppio allacciamento per la luce e il riscaldamento e poi fare più giri con il camion per portare la roulotte oltre alle giostre, c’è molto dispendio di denaro. Se hai un giro molto forte lo fai ancora, se no non conviene più. Allora noi siamo diventati stanziali e ci siamo fermati nel campo nomadi vicino a Idice da più di vent’anni ormai.

Di solito si va su il giorno prima con il camion, si porta la la giostra e tutta l’attrezzatura e si monta tutto. Poi si inizia a montare la giostra. Pezzo per pezzo, secondo cosa si mette giù, si monta. Quando si è montato tutto si aspetta la sera che si apre, il giorno della festa. Prima di aprire si pulisce un po’ la giostra, dove si siedono i bambini, ci si mette un po’ di lucido. Poi si inizia a lavorare. Il lavoro su per giù è dalle otto a mezzanotte, se no dalla mattina fino alla sera. C’è quella fiera che dura 4 ore o quella che dura anche 20 giorni. Dopo anni, anni e anni di attività abbiamo già un giro. Si sanno già le date di dove si va e dove non si va. Qualche festa delle volte non la fanno più, perciò si rimane a piedi.

La cosa più bella di questo lavoro? E’ quando trovi una festa nuova. Su un depliant, la trovi, telefoni: ok, va bene puoi venire. Hai trovato una festa, hai trovato il lavoro e lì è il momento più bello. Perché col tuo movimento, col tuo telefonare trovi un modo per lavorare e per far soldi. Senza che ti aiuta nessuno. Sei solo te che giri e poi la fortuna se trovi. Quello è il momento più bello perché se ti dicono di sì te dici: qua faccio mangiare la famiglia, qua posso fare i soldi per l’assicurazione, per la macchina, posso fare i soldi per pagare la luce a casa, posso comprare le scarpe per i miei figli, posso mettere via qualcosa per andarmene al mare con loro. Perciò il momento più bello è quando si trova una festa. Poi se la fortuna fa che fai mille euro o ne fai cento, comunque è sempre una fortuna che l’hai trovata.

Gianni Azzo

(e Giuseppe Azzo, Giuseppe Rodriguez Azzo, Daiana Azzo, Alessia Azzo, Daniel Bonora, Maicol Minguzzi, Molly)

UN FALEGNAME

Da ragazzo abitavo a Vicenza e frequentavo un istituto superiore, ma a sedici anni decisi di abbandonarlo perché avevo voglia di essere indipendente, così scelsi la strada di andare a lavorare. Per puro caso il primo lavoro che mi capitò fu quello di andare in una piccola bottega ad aiutare un falegname. Non era certo il lavoro che immaginavo di fare nella vita, perché nel primo anno di scuola superiore avevamo alcune materie di falegnameria e io ero uno dei più negati in assoluto. Però capitò così e rimasi in bottega per un po’ di tempo. Poi partii militare e dopo feci altri lavori finché ritornai in una falegnameria. Così sono andato avanti a fare il falegname per tutta la vita.

Insieme ad un mio amico di Vicenza, anche lui falegname, avevamo l’idea di aprire un’azienda nostra, ma trovai l’amore a Bologna e mi trasferii a San Lazzaro e un’ora dopo il mio arrivo trovai subito lavoro presso una storica falegnameria di Bologna poi spostatasi a San Lazzaro. Il mio amico, che a un certo punto ritenne giusto cambiar aria, mi raggiunse e venne a lavorare nella stessa falegnameria. Dopo alcuni anni questa azienda decise di chiudere perché i soci erano tutti anziani. Io e il mio amico di Vicenza, insieme a due figli dei vecchi titolari, decidemmo di continuare, rilevando l’azienda. Così è nata questa falegnameria Vi.Bo. che sta a significare Vicenza-Bologna, perché eravamo due vicentini e due bolognesi. E siamo attivi dal primo gennaio del 1997, quindi sono quasi vent’anni di attività.

Teniamo duro nonostante il periodo di crisi. I primi anni c’era sicuramente un po’ più di soddisfazione, non c’era il pensiero di doversi cercare il lavoro perché era più facile trovarlo. E anche i guadagni erano decisamente migliori. Adesso il lavoro non è mai continuo ed è dettato da ritmi frenetici alternati a momenti di pausa che ti mettono in ansia. C’è anche molta pressione fiscale. E‘ una lotta riuscire a rimanere in piedi. Molti nostri colleghi hanno chiuso. Nelle zone artigianali è pieno di capannoni vuoti. Noi forse siamo fortunati o forse abbiamo una buona tradizione o una buona clientela e riusciamo a rimanere attivi, ma guardando avanti c’è sempre un grande punto di domanda.

Il nostro lavoro è bello e vario. All’inizio lavoravamo molto per restauratori, producevamo telai per dipinti, si collaborava parecchio con i privati creando arredamenti e porte per interni. Attualmente lavoriamo molto per una ditta che produce arredamenti per l’estero e i nostri pezzi sono un po’ in giro per tutto il mondo. Abbiamo toccato un po’ tutti i continenti. Poi si continua a lavorare per piccoli lavori: si fanno riparazioni, si aggiusta la sedia, si fa il mobiletto, produciamo delle cornici per delle gallerie d’arte. Spesso ci troviamo a collaborare con artisti per la realizzazione di supporti, basi, telai e strutture che servono per mettere insieme delle opere d’arte.

La cosa che preferisco è il rapporto con il cliente, uscire da un lavoro a testa alta, contento di aver soddisfatto il cliente. Perché quello che si chiede all’artigiano è che si faccia un lavoro a regola d’arte, curato nei particolari e finito con precisione e qualità. Le giornate difficili sono quelle in cui il telefono suona mille volte. Non riesci mai ad andare avanti con una cosa e devi continuamente sospendere. Oppure le persone che ti danno gli appuntamenti e poi tardano e ti scombinano gli impegni della giornata. Poi nei mesi estivi, quando fa caldo e devi tirar giù dei tavoloni, tagliare, prendere dei pannelli… il lavoro è pesante e faticoso. E la fatica si sente. Chissà… se non avessi fatto questo lavoro, dato che mi piace molto cucinare, forse avrei fatto il cuoco.

Mauro Guglielmi

UN’INSEGNANTE

Ho sempre voluto fare questo lavoro. L’ho scelto e fin da piccola l’ho sognato. E ho fatto di tutto per realizzare questo sogno.

Una delle cose che mi piacciono di questo lavoro è trasformare le cose, lasciare una cosa bella ai ragazzi ogni giorno, dare loro una prospettiva grande. Mi piace vedere che c’è un movimento in loro e che quando si fanno delle proposte alte, anche difficili, loro hanno voglia di impegnarsi. Mi piace vedere che è possibile renderli contenti anche attraverso la fatica.

Tutto questo ripaga dell’impegno di questo lavoro che è tanto. Prima di tutto perché è un lavoro di relazione e quando le relazioni sono difficili, quando la vita dei ragazzi è difficile, ti senti coinvolto umanamente. Un’altra difficoltà sta nel fatto che in questo lavoro non si finisce mai, non si timbra il cartellino, c’è sempre necessità di preparare meglio una lezione, di studiare meglio qualcosa. Ci sono molte cose che io non sapevo, che ho dovuto studiare ex­novo. Quindi ho dovuto studiare tanto e pensare come trasmetterle nel modo più chiaro e significativo possibile. I ragazzi sono tutti diversi e bisogna avere il tempo di inventare modi diversi per comunicare con loro. Poi ci sono le correzioni dei compiti, la preparazione delle verifiche. C’è chi pensa che noi abbiamo tre mesi di vacanza, ma non è assolutamente così, proprio perché per rendere efficace l’apprendimento e proporre un buon percorso ci vuole tanta preparazione dietro.

E anche quando sei stanco, tuo figlio non ha dormito di notte e ti ha tenuto sveglio, alle otto del mattino devi essere pronto e soprattutto sorridente e di buon umore. Ecco una delle cose più importanti che ho imparato: bisogna essere di buon umore. Trasmettere ai ragazzi una serenità e una gioia in quello che si fa. E se trasmetti questa gioia e questo entusiasmo, loro si entusiasmano molto facilmente.

Silvia Gardi